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FORCES OCCULTES*

 

Forces Occultes è un film francese del 1943. È il più importante film-denuncia sulla massoneria.

La trama. Un deputato francese, in buona fede ma ingenuo, viene cooptato dalla massoneria. Dopo il rito di iniziazione, cominciano le delusioni di Avenel. Il deputato capisce che la maggior parte dei massoni utilizza l’ordine solo per ottenere favori, guadagnare soldi e prestigio e aggirare le leggi dello stato. Ma c’è di più. Avenel scopre che oltre alle misere ambizioni dei massoni di basso grado, esiste una volontà massonica internazionale molto più inquietante. Sarà infatti la massoneria francese a far entrare la Francia nella seconda guerra mondiale. Avenel proverà a fermare l’entrata in guerra ma sarà accoltellato da alcuni “fratelli” e si sveglierà in ospedale quando il conflitto è ormai iniziato.

Le conseguenze. Lo sceneggiatore del film, Jean-Marie Rivière, venne arrestato, mentre il regista, Jean Mamy (sotto lo pseudonimo di Paul Riche) e il produttore, Robert Muzard, vennero giustiziati per il loro ruolo nella realizzazione di questa pellicola.

Il “complottismo”. A differenza di quanto sostengono tanti debunker prezzolati che sono riusciti a convincere molte persone ignoranti e superficiali, le “teorie del complotto” non sono fantasie partorite dalla mente di visionari e diffuse tramite la rete. Il film è la prova che in passato, la consapevolezza dei cittadini riguardo alle “forze occulte” che dominano gli eventi mondiali, era molto maggiore. È anche la prova che in passato era più semplice trovare artisti, registi, sceneggiatori, produttori, ecc., disposti a raccontare la verità al grande pubblico. Oggi il sistema si è perfezionato. Da un lato è aumentata la censura, dall’altro la “dissidenza” è controllata: i paladini della “verità” sono uomini della massoneria, a cui viene data tanta visibilità ma a cui viene vietato di esporre la verità fino in fondo, con il risultato di allontanare i cittadini dalla percezione dei reali problemi e dal potere dei personaggi dietro le quinte. Tutti gli attivisti che vanno oltre i limiti del consentito, sono tacciati di complottismo, dietrologia, paranoia, ecc.. Il film è stato mandato in onda su Rai 3. La Rai, però, ha ben pensato di tagliare quasi tredici minuti che, coincidenza, sono i tredici minuti più importanti e significativi della pellicola. La censura della Rai, televisione massonica di stato, è la conferma di come il sistema si sia appunto perfezionato.

Le due versioni. Fortunatamente, in rete, è possibile trovare sia la versione integrale, sia la versione “ridotta” di Rai 3. Nella versione censurata il taglio avviene al minuto 31:55. Nella versione originale, la scena corrispondente si trova al minuto 30:35. La scena tagliata dura fino al minuto 43:15.

Le scene tagliate. I tredici minuti censurati contengono quattro scene.

1° Scena: I massoni sono riuniti nella loggia mentre il popolo francese è in rivolta nelle piazze. La polizia reprime la rivolta sparando sulla folla. Quattordici cittadini francesi muoiono. Centinaia i feriti. Il film evidenzia come la responsabilità diretta della morte di quei cittadini sia da attribuire alla massoneria francese. Addirittura il Gran Maestro dice: “Il popolo francese può morire purché la massoneria viva”.

2° Scena: Il parlamento francese elegge una commissione d’inchiesta per indagare sugli omicidi avvenuti nella rivolta. La massoneria esulta perché ben 35 commissari su 50 sono massoni e l’ordine ne esce pulito.

3° Scena: Il Gran Maestro organizza l’entrata in guerra della Francia telefonando ai fratelli massoni a capo delle più importanti istituzioni. Nell’ordine chiama: il Ministero degli Esteri, la Banca di Francia, lo Stato Maggiore, il Segretario del partito Radical Socialista, il quotidiano Le Temps e la fabbrica di aerei da guerra.

4° Scena: Sono i cinque minuti più importanti del film: il discorso tra il protagonista Avenel e il Gran Maestro. Trascrivo le battute più importanti del 33° grado. Riguardo ai massoni di basso grado dice: “Nella massoneria si nasconde tutto a chi ha un rango modesto. In basso non si sa niente”. Ma il Gran Maestro aggiunge che anche i massoni dei vertici, i gradi 33, non sono i dirigenti, come si potrebbe pensare: “Non ci sono dei capi tra noi, ci sono solo esecutori”.

Cos’è la massoneria? Dei gruppi di uomini che si sono riuniti ai quattro angoli del pianeta per chiudere il mondo in una rete dalle maglie impenetrabili. Siamo 50 mila in Francia, 500 mila in Inghilterra, 3 milioni negli Stati Uniti. Formiamo un unico blocco e una sola volontà. Ci diffondiamo dappertutto, comandiamo dappertutto. Qui 300 parlamentari sono massoni. In Inghilterra il re fa parte del nostro ordine. Negli Stati Uniti il presidente è un 32°. Non esiste un paese in cui non abbiamo appoggi segreti, i nostri uomini, le nostre banche, i nostri zelanti gruppi. E questo è niente. È solo la potenza materiale della massoneria. C’è qualcos’altro. Una dottrina superiore.

La domanda finale. Se anche tra i massoni dei gradi più alti non ci sono dei capi ma solo esecutori, da chi è rappresentata quell’unica volontà che dirige la massoneria universale? Il film non lo dice esplicitamente ma lo lascia intendere. O almeno, lo lasciava intendere ai telespettatori degli anni ’40. Ma oggi, dopo altri settant’anni di propaganda e lavaggio di cervello, quanti telespettatori sono ancora in grado di capirlo?!

 

Fonte; www.losai.eu di Daniele Di Luciano.

 

 

 

ROSEMARY’S BABY*        

 

Un film di Roman Polanski. Con Mia Farrow, John Cassavetes, Ruth Gordon, Sidney Blackmer, Maurice Evans. Durata 137' min. - USA 1968.

Rosemary Woodhouse (Farrow) sospetta una congiura demoniaca contro la creatura che porta in grembo, organizzata con la complicità del marito attore (Cassavetes) dagli arzilli Castevet (Gordon e Blackmer), coinquilini-stregoni mimetizzati negli abiti della borghesia di New York. Realtà o psicosi? Il polacco R. Polanski _ al suo 1° film made in USA dopo 3 britannici _ affascinato dal senso di mistero che serpeggia nel romanzo di Ira Levin, ne cava un memorabile esempio di cinema della minaccia e ripropone il tema dell'ambiguità fino a farne la struttura portante della narrazione. È "un incubo cinematografico dove la possibilità di orientarsi tra fantastico e reale è persa sempre, mentre resta a dominare la scena la sensazione di angoscia ridotta al grado zero e perciò ancor più inquietante" (S. Rulli). Oscar per R. Gordon. Prodotto da William Castle per la Paramount, nel 1976 ebbe un seguito TV di nessun interesse. AUTORE LETTERARIO: Ira Levin.

 

Fonte; Il Morandini. Zanichelli editore.

 

 

 

SUSPIRIA*

 

Un film di Dario Argento. Con Flavio Bucci, Alida Valli, Stefania Casini, Jessica Harper, Miguel Bosè. Durata 97' min. - Italia 1977.

Una giovane americana che frequenta un corso di danza in un'accademia di Friburgo, scopre che l'edificio è stregato: delitti efferati in serie. Il disinteresse di Argento per la logica narrativa è qui macroscopico, programmatico. Intanto, però, grazie alla musica dei Goblin, inventa il thriller assordante: picchia sull'orecchio quanto sul nervo ottico. Nel suo delirio gotico e mitteleuropeo la scenografia è la vera protagonista del 6° film di questo maramaldo della regia che obbliga l'ottimo Luciano Tovoli alle più spericolate acrobazie della cinepresa. Nella sua ricerca di un fantastico metafisico e demoniaco, apre una trilogia della Mater Inferi, proseguita con Inferno e Phenomena.

 

Fonte; Il Morandini. Zanichelli editore.

 

 

LUCIFER RISING*  

 

Un film documentario di Kennet Anger, con Myriam Gibril, Donald Cammell, Marianne Faithfull, Leslie Huggins, Kenneth Anger. Durata 30 minuti. USA, Gran Bretagna 1980.

“Il montaggio dai simboli ermetici diventa il primo sogno, poi minaccioso; secoli di pensiero mistico vengono distillate in una serie di fantasie voyeuristiche prive di dialogo. Uno psicodramma vizioso sostenuto da ceppi carnevaleschi di Calliope malefica. Lucifer Rising si presenta come una forma rituale su pellicola che segna la morte delle vecchie religioni come l'ebraismo e il Cristianesimo, e l'ascensione dell'età più nichilista destinata a Lucifero "

 

Mikita Brottman.

 

 

 

L’AVVOCATO DEL DIAVOLO*

 

Un film di Taylor Hakford. Con Al Pacino, Charlize Theron, Keanu Reeves, Jeffrey Jones, Judith Ivey. Durata 143' min. - USA 1997.

Un giovane dotato, spregiudicato avvocato della Florida (K. Reeves) accetta un'allettante proposta di uno studio legale di New York, guidato da John Milton (A. Pacino) e si rende conto di aver venduto l'anima al diavolo. Letteralmente. Da un romanzo di Andrew Neiderman _ con la fotografia del polacco Andrzej Bartkowiak, le scene di Bruno Rubeo, gli effetti visivi di Richard Greenberg e i demoni disegnati da Rick Baker _ è uscito un filmone difficile da catalogare: horror giudiziario? farsa orrorifica? parabola faustiana? Nel suo toccare antichi e nuovi temi religiosi (con frequenti citazioni dell'Apocalisse giovannea) la materia del film è ambiziosa e rischiosa: il sublime confina col ridicolo, e spesso ci sprofonda. Non bastano gli effetti speciali per fare un buon film fantastico. Vien voglia di leggere il romanzo: i dialoghi sono forse la componente più interessante del film, e Pacino _ doppiato da Giancarlo Giannini _ li dice con un potente istrionismo ben temperato. AUTORE LETTERARIO: Andrew Neiderman.

 

Fonte; Il Morandini. Zanichelli editore.

 

 

 

LA NONA PORTA*

 

Un film di Roman Polanski. Con Johnny Depp, Lena Olin, Emmanuelle Seigner, Frank Langella, James Russo. Durata 132' min. - Francia, Spagna 1999.

Dean Corso, esperto di libri antichi, è assunto dal collezionista Boris Balkan, studioso di occultismo che possiede una copia del volume Le nove porte del regno delle tenebre (1666), scampata ai roghi dell'Inquisizione. Ne esistono altre due e sospetta che una delle tre sia falsa. Quale? Il viaggio-inchiesta che porta Corso da New York in Europa è funestato da segni inquietanti e morti misteriose. Dal romanzo El Club Dumas (1993) di Arturo Pérez-Reverte, adattato con Enrique Urbizu e John Brownjohn, è derivato un film polanskiano a 18 carati. Storia di una investigazione (forse l'unica sullo schermo) imperniata su un libro e impregnata di soprannaturale, è un film laico sulla falsità delle apparenze e delle credenze che non si preoccupa più di tanto di prendere le distanze dalla sua materia perché "preferisce la reticenza, l'affidarsi all'intelligenza dello sguardo più che alla visione" (G. Cremonini). La costruzione narrativa è ingegnosa. AUTORE LETTERARIO: Arturo Pérez-Reverte.

 

Fonte; Il Morandini. Zanichelli editore.

 

 

OMEN*  

 

Un film di John Moore. Con Liev Schreiber, Julia Stiles, Mia Farrow, David Thewlis, Seamus Davey-Fitzpatrick. Durata 110 min. - USA 2006.

Thorn e Kathryn sono una coppia infelice. Dopo due aborti spontanei, perdono anche un figlio al termine di un parto travagliato. Un prete presente all'ospedale, conscio della tragedia, affida loro un neonato che ha perso la madre al momento della nascita. Il suo nome sarà Damien, e sarà portatore di eventi inspiegabili.

Era il 1976 quando Il presagio usciva nei cinema. L'atmosfera di inquietudine, la presenza di Gregory Peck, attore della vecchia Hollywood, la tendenza innescata da L'esorcista, e quel personaggio, Damien, che avrebbe terrorizzato con il suo inquietante sguardo le platee di appassionati, lo hanno trasformato in un cult. Oggi, a vent'anni di distanza, supportato da una campagna marketing che ha la sua forza nel giorno di distribuzione, il 6 giugno 2006 (6-6-6), il numero dell'anticristo (come anche citato dagli Iron Maiden), arriva questa nuova versione, adattata ai nostri tempi. John Moore, cosciente del rischio di confrontarsi con l'originale, ha utilizzato la sua tecnica filmica per innovare la storia. C'è riuscito solo in parte con l'aiuto di qualche goccia di sangue in più, e con la strategia da "salto sulla sedia". Alcune scene infatti sono molto più curate della prima versione, e il cast è sicuramente di primo livello (Liv Schreiber e Mia Farrow fra gli altri), sebbene si abbia l'impressione che quel senso di malato che la versione del 1976 aveva, si sia perso nel sorriso politically correct di Damien anni 2000. Un elogio alla locandina, iconografica e inquietante.

 

Fonte; Mattia Nicoletti.

 

 

 SILENT HILL*

 

Un film di Christophe Gans. Con Radha Mitchell, Laurie Holden, Sean Bean, Deborah Kara Unger, Kim Coates. Durata 120 min. - Giappone, USA, Francia 2006.

Rose ha una figlia, Sharon, che sta morendo per una terribile malattia. L'ultimo tentativo per salvarla è portarla da un guaritore, e, contro la volontà del marito, Rose fugge con la bambina. Direzione: Silent Hill.

Ispirarsi a un videogioco, per il cinema, non è mai stata una cosa semplice. Le trame dei game sono studiate a livelli, a crocevia, mentre una sceneggiatura cinematografica deve essere scorrevole, dettagliata, seguire una "consecutio temporum". C'è però un elemento che i due mondi hanno in comune, ovvero l'opportunità di creare atmosfere, visive e sonore. Ciò accade in "Silent Hill", ultimo film di Christophe Gans, uno che in materia di fantasy e mondi ibridi sa il fatto suo ("Il patto dei lupi", "Crying Freeman"), e che costruisce un lungometraggio tetro e sinistro, sui tappeti sonori del Videogame e su immagini buie e livide che creano inquietudine e partecipazione in chi guarda. "Silent Hill" prende però dalle sue fonti anche i difetti, e lo script si svolge in una direzione soggettiva, quella di Rose, che attraversa i vari "quadri", uniti da sequenze di raccordo che coinvolgono i personaggi secondari. Chi ha vissuto in prima persona il gioco della Playstation non potrà non rimanere coinvolto e sconvolto dalla verosimiglianza dei mondi ricreati sullo schermo, tuttavia, anche coloro che non sono dei fedelissimi della "console" troveranno questo viaggio, affascinante, dilatato nella durata (centoventi minuti per un soggetto "mistery", sono molti), angosciante e visionario. Forse la migliore trasposizione cinematografica da un videogame dai tempi di "Tron".

 

Fonte; Mattia Nicoletti.

 

 

 

ANTICHRIST*  

 

Un film di Lars von Trier. Con Willem Dafoe, Charlotte Gainsbourg. Durata 100 min. - Danimarca, Germania, Francia, Italia, Svezia, Polonia 2009.

Un uomo, una donna. Un marito e una moglie che fanno l'amore con grande trasporto. Nel frattempo il loro bambino esce dal box in cui dormiva, si arrampica sulla finestra per guardare affascinato la neve che cade e precipita morendo. La donna a distanza di un mese non riesce a riprendersi e il marito, che è anche uno psicoterapeuta, decide di curarla anche se i protocolli della professione non lo consentirebbero. Inizia così un percorso che condurrà entrambi in una casa nel bosco dove la tragedia è in agguato.

"Lascia ch'io pianga/ mia cruda sorte/ e che sospiri la libertà" È con questi versi di Handel che si apre e chiude quello che Lars Von Trier afferma essere il più importante film di tutta la sua carriera. Noi diremmo di più: si tratta del film in cui il regista danese gioca finalmente con se stesso a carte totalmente scoperte. Ciò che veramente pensa delle complesse e comunque misteriose dinamiche che stanno alla base del rapporto uomo/donna viene finalmente depurato dalle tematiche sociali che in tutti gli altri film (perlomeno a partire da Europa) tentavano, invero senza riuscirci del tutto, di occultarlo. È nudo Von Trier questa volta. Non si limita a portare i suoi due attori all'estremo con scene che faranno abbassare lo sguardo a più di uno spettatore ma va oltre.

L'idea del film nasce da un lungo periodo di depressione e finisce con il costituire una sorta di tentativo di terapia su grande schermo. I detrattori del regista danese hanno ora una freccia in più al loro arco la cui punta è stata opportunamente avvelenata dallo stesso Von Trier. Perchè questo è senza dubbio il suo film più squilibrato e al contempo più ambiguamente sincero. L'ossimoro è funzionale all'intera filmografia del regista ma torna ad esserlo, con maggior forza, anche in questa occasione. Perchè qui viene portato all'ennesima potenza il terrore che Von Trier prova verso il femminile anche se poi tenta di occultarlo con la pretesa di aver mostrato un maschio che pretende di porre sotto totale controllo la propria compagna subendone le conseguenze. La Natura (vedi caso nome femminile al punto che la si definisce solitamente Madre) è nella sua visione una creatura di Satana e la donna finisce con l'esserne la più diretta e pericolosa espressione. Dafoe sullo schermo altri non è che un Von Trier più giovane che soccombe, dopo aver cercato la strada della razionalizzazione, alla ineludibile irrazionalità totale del femminino che ha una sola strada per non nuocere: negarsi e negare in modo definitivo la possibilità del piacere. Chi sia l'Anticristo sarà lo spettatore a deciderlo. Certo è che mai come in questa occasione è emerso il lato più oscuro (qualcuno dirà "malato") di questo regista che forse grazie proprio ad Handel ci confessa il suo tormento: la sua è la dura sorte di chi soccombe quotidianamente a quella che sente come la gabbia di un corpo desiderante il sesso femminile. Con questo harakiri cinematografico ha inizio il tentativo di liberazione. Tre stelle per lo spudorato coraggio.

 

Fonte; Giancarlo Zappoli.

 

 

 

AGORA*

 

Un film di Alejandro Amenábar. Con Rachel Weisz, Max Minghella, Oscar Isaac, Ashraf Barhom, Michael Lonsdale. Durata 128 min. - Spagna 2009.

Alessandria d’Egitto. Seconda metà del IV secolo dopo Cristo. La città in cui convivono cristiani, pagani ed ebrei è anche un vivo centro di ricerca scientifica. Vi spicca, per acume e spirito di indagine, la giovane Ipazia, figlia del filosofo e geometra Teone. Ipazia tiene anche una scuola in cui l'allievo Oreste cerca di attirare la sua attenzione. C'è però anche un giovane schiavo, Davus, attratto dalla sua bellezza e dalla sua cultura. Col trascorrere degli anni la tensione tra gli aderenti alle diverse religioni diviene sempre più palese e finisce col divampare vedendo il prevalere dei cristiani i quali godono ormai della compiacenza di Roma (anche se non di quella di Oreste divenuto prefetto). Guidati dal vescovo Cirillo e avvalendosi del braccio armato costituito dai fanatici monaci parabalani, i cristiani riescono ad annullare la presenza delle altre forme di religione e intendono regolare i conti con il pensiero che oggi definiremmo 'laico' di Ipazia.

Ci sono fasi della storia del cattolicesimo che sono rimaste nell'ombra e sicuramente quella della presa di potere da parte dei cristiani di Alessandria, guidati da un vescovo autoritario e violento salito anche all'onore degli altari, appartiene al versante di cui non è il caso di andare fieri e neppure di cercare alibi in una diversa sensibilità rispetto al passato remoto. Il cinema, quando gliene viene offerta l'opportunità, fa bene a fare luce anche su questi aspetti. Se si prende delle licenze narrative può anche essere giustificato da esigenze di trasposizione. Quella che però non può essere in alcun modo apprezzata è la scelta linguistica adottata in questa occasione da un pur apprezzato regista quale è Alejandro Amenabar.

Dinanzi a una tematica così complessa il regista spagnolo sceglie la via del "peplum post litteram" in cui tutto è palesemente finto e si finisce con l'attendere il Maciste di turno che faccia crollare le colonne di gommapiuma del lontano passato di Cinecittà. L'eroina è proprio bella (e muore nuda), i cattivi sono cattivi che più non si può (e sono tutti dalla parte dei cristiani) e non c'è costume a cui manchi il cartellino della tintoria. Se ci si aggiunge qualche lezioncina sull'astronomia del tempo e qualche scontro armato dilatato per fare metraggio si raggiunge la durata giusta per un passaggio televisivo in due parti. Ma ci sono miniserie tv come Empire che hanno meno pretese e una resa perlomeno uguale.

 

Fonte; Giancarlo Zappoli.

 

 

LE STREGHE DI SALEM*  

 

Un film di Rob Zombie. Con Sheri Moon Zombie, Bruce Davison, Jeffrey Daniel Phillips, Ken Foree, Dee Wallace. Durata 101 min. - USA 2012.

Salem, Massachussets. Un nome che da generazioni produce inquietudine, riportando alla memoria gli antichi episodi di stregoneria e la violenta repressione che ad essi seguì. Fino al terzo millennio, in cui è un'ignara dj - Heidi - ad entrare in contatto con una forza sconosciuta, che sembra provenire da una delle streghe arse sul rogo 300 anni prima. È l'inizio di una inarrestabile discesa negli inferi, del corpo e della mente.

Ogniqualvolta si pronunci il nome Rob Zombie, presto emergono i denigratori con i consueti capi di imputazione ai suoi danni: troppo derivativo, troppo convinto di poter coprire con eccessi di scurrilità o truculenza le lacune di una poetica incompiuta, troppo compiaciuto. The Lords of Salem forse non li dissuaderà ed è lungi dal risultare quell'opus magnum che da Rob si attende in ogni occasione, ma rappresenta uno scarto importante, una svolta che non può passare sotto silenzio. Affidandosi per la prima volta completamente al corpo filmico della moglie, Mrs Sheri Moon, Rob firma la sua opera più ambiziosa; The Lords of Salem sonda la profondità della bellezza del demonio, iniettando forti dosi di gotico americano in una visione della Bestia che richiama l'incubo personal-satanico-riproduttivo di Polanski e l'eterno spettro della Family di Manson, transitando presso il Lucifero di Anger. Come il parassita che si accanisce su una ferita ancora in suppurazione, così Zombie insiste, fino in fondo, sull'atmosfera generata da un'inquietudine senza fine, percorrendo come una novella Dorothy quella scia di sangue che, dai roghi puritani del XVII secolo fino a Bel Air, è parte integrante della contraddittoria storia d'America. I momenti di puro orrore non mancano, ma la naiveté de La casa dei 1000 corpi, in cui prevaleva la volontà di riempire lo schermo di mostri e caricature del passato glorioso del gore, ha lasciato il posto a un nuovo Rob Zombie. Rarefatte ma saggiamente distribuite le sequenze di puro orrore, mentre a prevalere sono l'inquietudine costante e una deriva visionaria e allucinata, che ha forse il difetto di aprire all'eccesso gli occhi sull'operazione di Zombie, denudando gli ingranaggi della macchina. Ma che dice molto sull'evoluzione stilistica di un autore da cui passano necessariamente le sorti dell'horror futuro. Un instancabile cantore del Male di cui seguire le mosse, passo dopo passo.

 

Fonte; Emanuele Sacchi.

 

 

LO SGUARDO DI SATANA – CARRIE*

 

Un film di Kimberly Peirce. Con Chloe Moretz, Judy Greer, Portia Doubleday, Alex Russell, Gabriella Wilde. Durata 100 min. - USA 2013.

La giovane Carrie, dominata da una madre bigotta e possessiva, è emarginata a scuola per la timidezza, la goffaggine e la scarsa consapevolezza, come emerge dalla sua disperazione nello scoprire nelle docce della scuola le prime mestruazioni senza sapere assolutamente di cosa si tratti, tra le risate di scherno delle sue compagne di classe. La comprensiva professoressa Desjardin cerca di prendersi cura di lei, ma la situazione non è facile. La mamma della ragazza, infatti, non deflette dalla sua impostazione rigidissima e Carrie, che vorrebbe solo essere una ragazza come le altre, è in costante conflitto con lei. Inoltre, la bulletta Chris Hargensen medita una memorabile vendetta per i guai disciplinari che involontariamente Carrie le ha procurato. Carrie, però, davvero non è una ragazza come le altre: i suoi poteri telecinetici la rendono unica.

Carrie - Lo sguardo di Satana, il film che Brian De Palma ha tratto nel 1976 dal romanzo di Stephen King resta un paradigma difficile con cui confrontarsi. Ne sono già stati "stritolati" un tardivo seguito e un remake televisivo. Ritornarci sopra adesso richiedeva un approccio "nuovo", non condizionato dall'appartenenza al genere. Questo forse spiega la scelta di una regista a digiuno di horror. Kimberly Peirce si era fatta notare con un film singolare e riuscito come Boys Don't Cry, con cui Hilary Swank ha vinto il suo primo Oscar. Carrie è il suo primo horror, ma ha al centro una protagonista che si trova a disagio con la propria vita ed è vittima dei preconcetti e della cattiveria della gente, con più di qualche elemento in comune, quindi, con Boys Don't Cry. La sua versione della vicenda di Carrie White non è radicalmente innovativa, ma funzionale allo scopo di proporla alle nuove generazioni: la regista si avvicina alla materia con rispetto cercando di far funzionare la storia per quello che vale, senza introdurre elementi originali sostanziali e concentrandosi sulla psicologia del personaggio principale.

Ciò che emerge ancora con forza è quindi la rappresentazione del disprezzo verso il diverso, aggiornata ai tempi dei social network e dei filmati con i telefonini. Il "messaggio" che deriva dal romanzo di King rimane sostanzialmente intatto, con il corollario della descrizione - di maniera, ma tuttora efficace - della durezza e della cattiveria caratteristiche del momento di passaggio adolescenziale e della vita in comune all'interno dell'istituzione scolastica, dove i più deboli corrono sempre il rischio di diventare vittime dei più forti. Il meccanismo narrativo kinghiano - trasposto efficacemente in immagini da Kimberly Peirce - mostra ancora la sua semplice perfezione nell'edificare il dramma e nel suscitare la partecipazione sino all'apoteosi finale in un tripudio di effetti speciali.

Chloë Grace Moretz è una delle attrici giovani più in voga del momento e si è fatta notare in film assai diversi tra loro come Diario di una schiappa e Hugo Cabret, ma non è nuova all'horror sin dai tempi del discreto Zombies - La vendetta degli innocenti e di una raffica di remake, da Amityville Horror a The Eye, derivazione americana dell'omonimo horror asiatico dei fratelli Pang, a Blood Story, versione hammeriana dello svedese Lasciami entrare. È brava, ma non è Sissy Spacek, che al ruolo di Carrie aveva saputo portare una complessità e profondità particolari. Inoltre, forse è troppo carina per essere davvero credibile come totale emarginata. Julianne Moore è più dimessa e realistica rispetto alla delirante Piper Laurie del film di De Palma, rendendo più persuasiva la critica contro l'oscurantismo che domina il suo personaggio, esemplificato sin dall'inizio nella feroce e azzeccata scena del parto casalingo.

 

Fonte; Rudy Salvagnini

 

 

DEVIL'S KNOT

 

Un film di Atom Egoyan. Con Reese Witherspoon, Colin Firth, James Hamrick, Seth Meriwether, Dane DeHaan. durata 114 min. - USA 2013.

A West Memphis, un gruppo di bambini scompare sulla strada del ritorno da scuola a casa. Le ricerche della polizia portano all'orrenda verità: i bambini sono stati seviziati e uccisi. Sulla cittadina cala l'orrore e si scatena la caccia al colpevole, individuato dalle forze dell'ordine in tre ragazzi amanti del metal e di rituali vicini alla stregoneria. Un investigatore privato indaga sul caso e, resosi conto dell'inconsistenza delle prove a carico dei ragazzi, decide di aiutare i loro avvocati a salvarli dalla pena di morte.

Non capita spesso che la trasposizione cinematografica di un fatto di cronaca sia preceduta da un documentario sullo stesso argomento. Nel caso di Fino a prova contraria i documentari sono addirittura quattro: tale è stato lo shock per la vicenda dei West Memohis Three - così sono stati ribattezzati i presunti colpevoli di omicidio - e per la sua sbrigativa risoluzione giudiziaria da spingere Joe Berlinguer e Bruce Sinofsky a girare Paradise Lost, indagine sui fatti occorsi tesa a dimostrare l'innocenza dei ragazzi condannati a morte. Un successo clamoroso che ha portato a due sequel e alla riapertura del caso (l'ultimo episodio è sulla definitiva scarcerazione dei tre), prima che anche Peter Jackson si muovesse per produrre la sua versione dei fatti, West of Memphis, affidata alla regia di Amy Berg.

Per Atom Egoyan si profilava quindi un compito particolarmente arduo, quello di rispettare i fatti di cronaca e i lavori precedenti, e insieme di fornire un senso a una nuova versione della storia, che riuscisse ad andare oltre i limiti che il cinema del reale non può valicare. Forse è proprio questo crocevia di difficoltà ad aver bloccato il regista, alle prese con uno script evidentemente rimaneggiato più volte e con una produzione non in grado di fornire un cast di supporto all'altezza di protagonisti di alto profilo come Reese Witherspoon e Colin Firth, peraltro ingabbiati in ruoli bidimensionali, in cui faticano a dimostrare le proprie doti (benché non manchi di interesse il tentativo della Witherspoon di reboot di una carriera nei panni di una dimessa casalinga di provincia).

Il tema è caro a Egoyan, in un certo senso è ricorrente nella sua filmografia: l'innocenza violata, vite stroncate sul nascere che causano lacerazioni che non si possono ricucire. Così fu per i morbosi rapporti edipici di Exotica, o per il paese distrutto dalla tragedia de Il dolce domani (e con uno scuolabus si apre anche Fino a prova contraria), o ancora per il serial killer de Il viaggio di Felicia. Un tema che l'autore sente come intimamente suo, ma che pare un ostacolo alla sua creatività, nel momento in cui è da considerare la fedeltà alla vicenda e non sono consentite fughe artistiche. Sull'approfondimento dei personaggi e l'indagine più strettamente cinematografica, ovvero la capacità di mostrare ciò che non è atteso o di permettere di visualizzarlo ricorrendo a metafore e immagini suggestive, prevalgono la bidimensionalità del legal thriller e la logica del whodunit, che ripercorre fatalmente ipotesi e suggestioni già offerte da Paradise Lost e seguiti.

La traccia del diabolico e del suo celarsi nei luoghi più inattesi, anziché in quelli indicati da un paese desideroso di una nuova caccia alle streghe, resta solo accennata e svolta con scolastici accostamenti di montaggio (Skip James e Robert Johnson, il diavolo nel blues, quasi in qualità di MacGuffin sul personaggio di Firth e contrapposti all'heavy metal tenuto costantemente fuori campo e invece oggetto centrale della crociata). Egoyan ha di fronte a sé un microcosmo che sembra appartenere alle pagine ingiallite di Hawthorne ma invece è presente nel nostro tempo e segue regole fuori da ogni logica, eppure sembra non riuscire a comprenderlo fino al punto di poterlo esorcizzare. Fino a una risoluzione titubante, che si rifugia nell'allusione e in una lunga appendice esplicativa sui titoli di coda, aumentando ulteriormente la distanza tra la forza dell'inquietudine palpabile emanata dai personaggi reali della vicenda dei West Memphis Three e la assai meno cinematografica traduzione in immagini operata dal regista.

Fonte; Emanuele Sacchi

 

 

 

DRACULA*

 

Un film di Francis Ford Coppola. Con Gary Oldman, Winona Ryder, Anthony Hopkins, Keanu Reeves, Cary Elwes. Horror, durata 128 min. – USA 1992.

Il film non è fedele al racconto di Stoker come il titolo lascia supporre. È comunque la storia di un giovane archivista inglese che si reca in Transilvania su richiesta del conte Dracula. Dopo avere fatto conoscenza con l'inquietante personaggio, il giovane è irretito da un gruppo di fanciulle seguaci del conte. Nel frattempo il conte si reca in Inghilterra, dalla promessa sposa del bibliotecario, avendone visto il ritratto, ravvisa nella fanciulla la reincarnazione della donna da lui amata 400 anni prima, che morendo causò la sua dannazione. L'intervento di un curioso personaggio, un po' stregone e un po' scienziato, da sempre alla caccia del grande vampiro, pone fine al malefico dominio di Dracula e libera la fanciulla, restituendola all'archivista, che nel frattempo era fuggito dal castello del conte. Ispirato figurativamente a Bruegel, detto "degli inferni", a Magritte e all'espressionismo in generale, il film di Coppola è una grandiosa revisione del mito cinematografico del celebre vampiro. Nulla viene risparmiato per stupire ogni tipo di pubblico. È il solo ma non trascurabile limite del film, che pecca per un eccessivo accumulo di stereotipi deformati dal desiderio di stupire. Tuttavia il risultato finale è parente prossimo del capolavoro. Straordinaria l'intuizione di mostrare i due protagonisti mentre vanno al cinema, siamo agli inizi del secolo, come se Dracula, da sempre sfruttato sullo schermo, volesse vendicarsi dello stesso. Se Winona Ryder e Keanu Reeves sono il prezzo pagato alla young generation degli spettatori, Gary Oldman e Anthony Hopkins sono i continuatori della infinita stagione dei grandi interpreti del grande cinema.

 

Fonte:Mymovies.it

 

 

IL CORVO*

 

Un film di Alex Proyas. Con Ernie Hudson, Brandon Lee, Michael Wincott, Rochelle Davis, Bai Ling. durata 99' min. - USA 1994.

Da un fumetto undeground di James O'Barr. Un anno dopo essere stato assassinato con la sua ragazza, il chitarrista rock Eric Draven (raven = corvo) esce dalla tomba. Invulnerabile e scortato da un corvo, si accinge a una vendetta che ha per scopo la morte dei suoi assassini e per traguardo la riunione definitiva nell'aldilà con l'amata. Zeppo di citazioni, ricco di stereotipi di cultura "bassa", quest'opera prima di un egiziano emigrato in Australia e premiato regista pubblicitario (lo si vede nel montaggio forsennato) è un film manieristico di forte suggestione che ha il proprio fine nella scrittura. Morto durante le riprese, colpito da una pallottola vera invece che a salve, il protagonista, figlio di Bruce Lee, è sostituito in alcune scene dalla sua immagine virtuale creata con tecniche digitali.

 

Fonte: Laura, Luisa e Morando Morandini.

 

 

 

 

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